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Rione XI  S. Angelo

 

 

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L'undicesimo rione di Roma occupa una parte dell'antica Regio IX di Augusto, che comprendeva solenni monumenti come il Teatro di Marcello. E' il più piccolo tra i rioni e trae il nome dalla minuscola chiesa di Sant'Angelo in Pescheria (già "Sant'Agnolo Pescivendolo") presso il mercato ittico, un tempo situato sotto le colonne del Portico d'Ottavia. Il Teatro di Marcello servì probabilmente anche da modello per la costruzione del Colosseo: fu terminato l'11 avanti Cristo e fu il primo teatro di Roma dedicato alla poesia e alla musica. Fin dall'epoca di Settimio Severo, però, cadde in disuso e i suoi marmi furono riutilizzati per altri scopi, come la costruzione del vicino ponte Cestio. Nel XII secolo fu trasformato in fortezza e passò in proprietà a diverse famiglie gentilizie: dai Pierleoni ai Savelli, dagli Orsini ai Sermoneta. Il Portico d'Ottavia, che è il cuore del rione e del ghetto ebraico, è tra gli scorci più suggestivi di Roma. Fu innalzato da Augusto nel 23 a.C. per la sorella Ottavia. Tra le sue rovine è ancora visibile la pietra della vecchia pescheria, sulla quale si può leggere: "usque ad pinnas inclusive". La pietra serviva da unità di misura per i pesci da destinare alla tavola delle autorità municipali. Altra caratteristica del rione è la forte densità di chiese antichissime come Santa Maria del Pianto: secondo una diffusa interpretazione, questa deve il suo nome al pianto dei fedeli per l'ostinazione degli ebrei che non volevano convertirsi. Santa Maria in Publicolis è ricordata invece per la presenza della tomba della famiglia Santacroce-Publicola, che introdusse l'uso del tabacco a Roma nel XVII secolo La chiesa più celebre è però quella di San Gregorio ai Quattro Capi, dove il sabato gli ebrei venivano portati a forza per assistere alla messa. Nel cartiglio centrale sulla facciata è riportato appunto, in ebraico e in latino, un passo del Nuovo Testamento che ammoniva gli ebrei a non perseverare nella loro fede. All'ombra della Sinagoga, costruita nel 1904, si estende il Ghetto. La comunità ebraica di Roma è tra le più antiche: le prime notizie risalgono al II secolo a.C., quando sul posto giunsero schiavi dalla Palestina. Fino al medioevo gli ebrei romani, dediti al commercio, convissero tranquillamente con la comunità cristiana. I problemi cominciarono con Paolo IV che nel 1555, appena eletto, decise di rinchiuderli tutti in questa limitata area della città. Più di tremila persone in circa tre ettari, una manciata di viuzze tra piazza Giudea (ora piazza di Santa Maria del Pianto), i resti del Portico d'Ottavia e le rive del Tevere davanti all'isola Tiberina. Tutto intorno, catene e cinque portoni che venivano chiusi di sera. Gli ebrei potevano lasciare il ghetto solo in ore stabilite del giorno e, quando uscivano, gli uomini dovevano portare un berretto giallo e le donne uno scialle dello stesso colore. Il "claustro" finì con Pio IX nel 1870: sparirono catene e portoni, furono restituiti i diritti civili e gli ebrei in parte se ne andarono altrove, in parte restarono. Oggi la parte di comunità ebraica che vive ancora qui costituisce - se ne accorge anche il passante frettoloso - uno degli ultimi baluardi di autentica tradizione romana, con quel senso di solidarietà e collettività che nessun condominio in cemento armato potrà mai offrire.