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Vittoriano

 

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Colosseo

Piazza Venezia

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Storia

Il nazionalismo del primo ‘800 ancora legato agli ideali della rivoluzione francese e del migliore romanticismo, univa strettamente l’amor diGiuseppe Garibaldi patria all’amore per la libertà. Era rivendicazione dell’identità caratteristica: culturale, religiosa, linguistica, dei singoli popoli ma nella prospettiva di una fraterna collaborazione reciproca tra i popoli stessi. Superate le posizioni di una certa storiografia nazionalistica che si batteva per un Risorgimento italiano autoctono, va precisato che l’esigenza di unificazione nazionale italiana è strettamente collegata ai valori e agli orientamenti che fra Settecento e Ottocento derivano dalla rivoluzione francese, dalla vicenda napoleonica e dalla cultura romantica con la rivendicazione di una più ampia libertà, fortemente ricercata da “quell’individuo” che nel romanticismo aveva preso coscienza di se. Questi valori influenzarono tutta l’Europa, l’estero ancor prima dell’Italia. Ecco così, i moti del 1820/21, i moti del 1830 e quelli del 1848, e il crescere dal basso di un’esigenza di strategie che vadano al di là del moto regionale o dell’azione di sette segrete, ed  ecco quindi, Mazzini con la “Giovine Italia”.

Vittorio Emanuele IIDopo i moti e la prima guerra d’indipendenza, il bilancio fallimentare per l’Italia fu ridimensionato dalla concessione, da parte di Carlo Alberto nel marzo del 1848, dello Statuto Albertino. Questa carta costituzionale, che durò fino al 1946, vedeva il re titolare effettivo del potere esecutivo e partecipe con il parlamento, diviso in una Camera dei Deputati (elettiva) e in un Senato (di nomina regia), del potere legislativo. Nel 1820, nasceva il futuro erede di Carlo Albero, Vittorio Emanuele II, (Re di Sardegna dal 1849) che governerà l’Italia dal 1861 al 1878. Questi, anche se educato ai principi assolutistici della casa reale, pose, in linea con il padre, la sua monarchia come forza di propulsione ed elemento di unione nel processo dell’unificazione italiana. Come prima cosa rispettò lo statuto del suo predecessore, decisione non priva di coraggio, che, riconosciutagli dal popolo, gli valse il titolo di “re gentiluomo” e gli attirò la simpatia degli italiani. In un primo momento guardò con sospetto la politica di Cavour ma con la guerra di Crimea e soprattutto dopo il congresso di Parigi (1856) lo appoggiò senza riserve. Dopo la spedizione dei Mille, che giudicava, a differenza di Cavour, favorevolmente, e che  lo vide in prima persona protagonista, varie annessioni sancite da plebisciti trasformarono il Regno di Sardegna  in Regno d’Italia e Vittorio Emanuele, nel marzo del 1861, da re del Regno di Sardegna a Re D’Italia con Roma per capitale.

Il 9 gennaio del 1878 la notizia improvvisa e inaspettata della morte del sovrano colpì tutta l’opinione pubblica. Moriva il re che, a 57 anni d’età e quasi 29 di regno, era stato protagonista della grandiosa epopea del riscatto nazionale. L’immagine che si divulgò fu quella di un eroe, di un re investito di una missione provvidenziale a cui tutta la popolazione d’Italia era legata da un rapporto quasi filiale. Ogni cura venne messa nell’organizzazione delle cerimonie funebri: l’esposizione della salma al Quirinale, ed il trasporto e il funerale al Pantheon, il quale fu decorato per l’occasione con una scritta che copriva il fregio esterno e che recitava “A Vittorio Emanuele il Padre della Patria”.

Già prima però di questa coinvolgente cerimonia, nella riunione del consiglio comunale di Roma del 10 febbraio del 1878 nasceva l’idea di erigere  nella capitale un monumento in onore a Vittorio Emanuele II.

Il 16 marzo del 1878 venne promulgata la legge che, accogliendo il progetto del ministro Giuseppe Zanardelli, ordinava l’erezione a Roma di un monumento nazionale alla memoria del re, lo stanziamento di otto milioni di lire di contributo statale più sottoscrizioni popolari, il luogo (piazza terme di Diocleziano) e la tipologia del monumento (l’arco di trionfo, unica forma degna dei re). Venne così bandito, nel 1880, il primo concorso a carattere mondiale. Forti furono giustamente le critiche e le resistenze degli artisti Italiani: non poteva, giustamente, a loro avviso, essere non italiano l’autore del monumento al primo re d’Italia.

Giuseppe SacconiI partecipanti che inviarono i primi progetti furono ben 315, rappresentanti 13 paesi differenti (v’era anche un concorrente giapponese), di cui 253 italiani.

Il concorso provocò un vero e proprio delirio nell’ambiente e le idee furono delle più varie e strane. Uno dei progetti ad esempio prevedeva attorno a Castel Sant’Angelo, mutato in un grande faro elettrico, la costruzione di alcune terme in nome del re. Importante è anche ciò che prevalse in generale nei vari lavori, ovvero un pedante simbolismo e allegorismo che imponeva ad esempio ad una torre di elevarsi per 10 piani, tanti quanti furono gli anni impiegati per la costituzione dell’unità d’Italia.

Nel 1882 venne bandito un secondo concorso, questa volta nazionale, che stabiliva, sotto la pressione del presidente del Consiglio De Petris  in persona la nuova sede del monumento nell’area del Campidoglio.

Il programma del secondo concorso quindi prescriveva: un monumento da erigersi sull’altura settentrionale del campidoglio in asse con via del corso, la statua equestre in bronzo del re, un fondo architettonico di almeno 30 metri di lunghezza e 29 d’altezza, lasciato libero nella forma, ma atto a coprire gli edifici retrostanti e la laterale chiesa dell’Ara Coeli. I concorrenti ebbero un anno di tempo e le proposte furono 98 di cui ne vennero selezionate tre: quella dell’architetto tedesco Bruno Schmitz, quella di Manfredo Manfredi e quella di Giuseppe Sacconi. La commissione reale votò all’unanimità Giuseppe Sacconi.

I problemi dei costi dovevano passare in secondo piano, si sentì ora, infatti, il confronto con l’estero e le opere grandiose che vennero innalzate in circostanze simili e con la storia stessa di Roma e le grandi opere riflesso del potere dei Cesari prima e dei Papi poi. I sacrifici artistici ed archeologici, dipendenti dalla scelta del luogo, dovevano essere del tutto sopportabili e il monumento al re non poteva essere posposto al feticismo degli archeologi. Questo era il pensiero di De Petris, ma non di tutti, Rodolfo Lanciani in testa. Per la costruzione del monumento infatti, furono demoliti interi quartieri medioevali e rinascimentali, rasi al suolo il convento dell’Ara Coeli, la torre di Paolo III e il viadotto che la collegava a Palazzetto Venezia, la casa di Michelangelo e di Giulio Romano, la bottega di Pietro da Cortona. Scomparsero anche l’antica via della Pedacchia, via Macel de’ Corvi e il vicolo di Madama Lucrezia.

Cerimonia posizione della prima pietra Il 22 marzo del 1885 alla presenza della famiglia reale al completo si svolse la cerimonia della posa della prima pietra.

Il progetto di Sacconi si ispirava ai grandi complessi classici come l’altare di Pergamo e il tempio di Palestrina, il monumento sarebbe dovuto essere così un grande spazio pensato come un “foro” aperto ai cittadini in una sorta di piazza sopraelevata nel cuore di Roma imperiale.

CantiereSin dall’iniziò il cantiere però non ebbe vita facile. Convinzione generale era infatti che la collina su cui ci si stava apprestando a costruire il monumento fosse stata di natura tufacea, invece, con costernazione di tutti, la roccia di tufo non si trovava, e al suo posto, argille fluviali, banchi di sabbia, strati sottili di creta, d’arena gialla, pomice e scendendo più giù, sabbia ghiaiosa e persino acqua. Si trovarono gallerie scavate nella Roma imperiale per estrarre il tufo (che durante l’ultima guerra divennero rifugio antiaereo), ed emersero le Mura dei Re e L’Arce Capitolina. Occorreva così obbligatoriamente un’intensiva opera di consolidamento e ricostruzione del colle.

Fu proprio nel corso di quest’impresa che venne trovata, a 14 metri di profondità, la massa fossile di un mastodonte, un elefante preistorico, con tanto di mascella e occhi pietrificati del pliocenico superiore.

CantiereA questo punto il progetto venne per la prima volta modificato, la base venne allargata, il portico allungato e sensibilmente curvato, concavo e gli alzati alleggeriti. Superate questi primi ostacoli tecnici la fabbrica prende piano forma nel bianco sparato del friabile marmo botticino fatto venire da Brescia (guardacaso zona di origine del ministro Zanardelli) al posto del travertino più resistente.

Una seconda questione fu sulla realizzazione della statua equestre del re. Il giorno stesso della chiusura del secondo concorso, la commissione reale ne bandi un altro per la statua equestre e con grave disappunto del Sacconi nominò Enrico Chiaradia. Fra i due fu subito conflitto, con dispetti e critiche reciproche. Ne uscì vincitore lo scultore, il 18 luglio 1905, venticinque giorni prima della morte di Sacconi infatti, venne dato l’incarico di procedere alla fusione dei cannoni di bronzo forniti dal Ministero della Guerra. Cinque anni dopo la statua era perfettamente fusa, levigata e tanto grande che in occasione della visita di Vittorio Emanuele III, venne imbandita una tavola all’interno del ventre del cavallo.

Gaetano Koch, Pio Piacentini e Manfredo ManfrediL’idea originaria del Sacconi non prevedeva il re a cavallo, ma in apoteosi, con gli indumenti regali “coronato dal genio della Vittoria primo re d’Italia in Campidoglio”, a suo avviso una statua equestre era totalmente inadatta al carattere del monumento stesso, in fondo, sosteneva, quando il re era entrato a Roma non aveva forse cessato di combattere per l’unità d’Italia e, quindi, non era più logica una rappresentazione dell’apoteosi del sovrano come primo re d’Italia?

Da qui nacque la parola chiave “Altare della Patria”, che Sacconi accolse anche nella speranza di liberarsi di Chiaradia, ma che si collegava a pieno a quel sentimento nazionalistico e risorgimentale che era stato fondamento dell’ultimo secolo e che aveva visto Vittorio Emanuele suo protagonista in prima persona come re dell’unificazione della patria Italiana. Dopo la morte di Sacconi il progetto passò alla triade di architetti: Gaetano Koch, Pio Piacentini e Manfredo Manfredi, i quali sostennero la tendenza già attestata nella prima modifica, di concepire il monumento come prosecuzione naturale della piazza.

Inaugurazione Nel 1873 e successivamente nel 1883 vennero deliberate due leggi speciali per Roma che avevano lo scopo di delineare un nuovo assetto urbanistico della città, contribuendo al progetto “di volto nuovo di città moderna”. Di questo periodo è lo sviluppo nel quadrante di nord-ovest, sull’Esquilino che accoglierà i locali della pubblica amministrazione, e via Nazionale. La nuova arteria costituiva un tassello di un piano urbanistico ben studiato e simbolico. Nell’intersezione con all’antichissima via Lata dei romani poi via del Corso e corso Vittorio Emanuele formava, infatti, una struttura a T rovesciata che aveva punto focale il monumento al re. Questo progetto è una chiara espressione di quel monocentrismo che Roma aveva da secoli dimenticato e che ora riappare sotto la spinta di riqualificazione dell’apparato urbano della città eterna a fini politici e laici dell’unità nazionale e con lo scopo di coinvolgere emotivamente e sentimentalmente la popolazione.

Pinata cripta Milite Ignoto Occorrerà però il trionfo della morte per coinvolgere a pieno i sentimenti della gente, occorrerà la tragedia della guerra mondiale affinché la mole di marmo conquisti un’anima, occorrerà il sacrificio di milioni di uomini rappresentati in uno, un Ignoto, che verrà sepolto nel sacello sotto la Dea Roma. Il  Soldato e il Popolo si fondono fino a formare un’unica simbolica e comunitaria effige: la Nazione armata, cha ha combattuto in questa guerra di  massa e che ora si riscatta assurgendo al posto più alto, al riconoscimento supremo.

Il 4 novembre 1921, giorno della tumulazione del Milite Ignoto sotto l’Altare della Patria, nella cripta a lui dedicata, l’Italia intera si  è fermata per rendergli omaggio.

Durante il periodo fascista ciò che entra in gioco, con l’imponente campagna di restauri della Roma antica  e con la sistemazione, a spesa di numerosi reperti archeologici, della via dell’Impero e della via del Teatro di Marcello, è la dialettica tra passato e moderno, con la tendenza tipicamente del regime all’attualizzazione del antico, in tutte le sue espressioni; nella ritualità militare come nell’urbanistica.

Veduta aereaLa piazza si riduce a un mero punto di propaganda e di confronto figurativo e storico della diarchia re-duce, da una parte infatti c’è il monumento a Vittorio Emanuele II dall’altra il Palazzo di Venezia. Del resto se non fosse per la presenza del Milite Ignoto, sacro anche al regime, il monumento è nato come emblema a uno dei componenti della casa reale sabauda.

Di questo periodo a completamento del complesso è la costruzione della nuova cappella del Milite Ignoto e del Museo del Risorgimento. Il fascismo si impossessava così del vittoriano e, nell’atto stesso, finiva per annullarlo. Oramai alla mole era relegato il ruolo di ornamento per le manifestazioni del regime e di palcoscenico per le celebrazioni della virtù militare. Con la fine del regime fascista e la scelta, mediante un referendum, tra la monarchia e la repubblica, il popolo italiano ha ritrovato nell’Altare della Patria, il simbolo d’unità nazionale, che si celebra sulle sue scale a date fisse: il 25 aprile, ricorrenza della liberazione, il 2 giugno per la festa della Repubblica con la relativa rivista militare, e il 4 novembre, festa della Vittoria e giornata delle Forze armate.

 

Visita al monumento

Il monumento si apre con una prima scala, una frontale larga 41 m con 243 gradini. All’ingresso di questa, ai lati della cancellata a scomparsa in ferro battuto di Manfredo Manfredi (uno degli architetti che insieme a Gaetano Koch e Pio Piacentini prese il posto di Sacconi alla sua morte), si ergono due gruppi scultorei in bronzo dorato, d’ispirazione mazziniana; a destra l’Azione, a sinistra il Pensiero. Queste, invitano il visitatore a accingersi in un viaggio simbolico lungo tutta l’Italia post-risorgimentale di cui il monumento vuole essere emblema.

Per rendere ancor più visibile questo obiettivo, sui lati esterni del monumento, due grandi fontane danno al complesso una connotazione geografica precisa, rappresentando i due grandi mari che delimitano la penisola, sulla destra, “l’Italia è bagnata” dal Tirreno, con una lupa e una piccola nereide e sulla sinistra “è bagnata” dalla fontana rappresentante l’Adriatico, con il leone di San Marco.

Ai lati della scalea principale si trovano due leoni alati e sulla sommità della scala, su due prore rostrate, le Vittorie Alate, anche queste, come i due complessi del Pensiero e dell’Azione, di bronzo dorato.

Sul primo ripiano, l’Altare della Patria, con la tomba del milite ignoto: nella nicchia centrale la statua della dea Roma, opera dello Zanelli, a sottolineare il ruolo di guida che ha sempre avuto Roma e a significare come negli ideali del Risorgimento non si potesse immaginare un’Italia senza la città eterna. Verso Roma, nel fregio, convergono maestosi altorilievi raffiguranti il corteo del Trionfo del  Lavoro a sinistra, e  a destra il corteo del Trionfo dell’Amor Patrio.

Nel primo troviamo: l’industria (dalla lunga trave pende la pesante incudine su di cui una mano femminile posa una corona di quercia simbolo della forza); Il genio alato del Lavoro (che poggiandosi sulla fatica umana, sta per salire vittorioso sul grande aratro trionfale); l’Agricoltura (allevamento, mietitura, vendemmia e irrigazione). Nel secondo: Tre figure femminili (che offrono a Roma corone onorario, seguite dai labari e le insegne delle legioni); La biga trionfale (sulla quale stanno il genio vittorioso dell’Amore di Patria e l’Eroe, appoggiato alla grande spada dei Titani, e due donne che gli tengono il mantello) e in più, nuovamente, il motivo della trave, dalla quale pende il braciere del fuoco sacro.

Sul terrapieno del primo terrazzo sono i gruppi scultorei a destra della Forza,  e della Concordia mentre a sinistra del Sacrificio e del Diritto.

Sovrasta tutto, su un’alta base a panoplie la statua equestre di  Vittorio Emanuele II in bronzo dorato di Enrico Chiaradia e Emilio Gallori.

La statua è alta 12 m ed è stata realizzata con la fusione di 50 tonnellate di bronzo, ricavate da cannoni di guerra forniti dal Ministero della Guerra Raccontano le cronache, che finito il lavoro, visto le grandi dimensioni, prima della chiusura della pancia del cavallo, in occasione delle visita del re Vittorio Emanuele III, si organizzò un banchetto con il re e 21 notabili della città all’interno del cavallo stesso.

Alla base della complesso scultoreo sono rappresentate, sempre in altorilievo, 14 delle principali città italiane: Urbino, Ferrara, Genova, Milano, Bologna, Ravenna, Pisa, Amalfi, Napoli, Firenze Torino, Venezia, Palermo e Mantova.

Sugli avancorpi mediani, al di sopra dei portali, sono le raffigurazioni, da sinistra della Politica e della Filosofia, della Rivoluzione e della Guerra, a significare gli strumenti del pensiero e dell’azione utili alla libertà della patria.

Segue il portico, lungo 72 metri, con una fronte leggermente concava di sedici colonne alte 15 metri.

La decorazione della trabeazione presenta le personificazioni delle regioni d’Italia (Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia, Basilicata, Sicilia, Calabria e Sardegna). Ogni statua venne affidata ad uno scultorei della regione stessa.

La rappresentazione delle regioni italiane è un ulteriore tassello (insieme alle fontane dei due mari e alle 14 città) del obiettivo generale che hanno tutte le decorazioni del monumento, ovvero la rappresentazione, non solo allegorica, ma anche fisica, dell’Italia Unità. A sottolineare l’importanza fondamentale di questo tema nel progetto del monumento, due iscrizioni sui propilei recitano l’una “PATRIAE  UNITATI” (All’unità della patria) e l’altra “CIVIUM LIBERATI” (Alla libertà dei cittadini).

All’interno del portico la decorazione musiva dei lunettoni rappresenta la Fede, la Forza, il Lavoro e la Sapienza. Al di sotto del portico otto altari ricordano le città liberate durante il primo conflitto mondiale, dietro ai quali sta il macigno del Monte Grappa e davanti alle due entrate, a propilei, svettano altre due Vittorie Alate su colonna.

L’attico è ornato da un fregio di aquile alternate a grandi scudi e sotto i pronai dei propilei stanno i Geni scolpiti. Previste fin dall’inizio del progetto nel 1927 furono poste sulla sommità dei sue tempietti laterali due quadrighe rappresentanti  a destra l’Unità  e a sinistra la Libertà. Queste due quadrighe portano il monumento ad un’altezza di 81 metri dalla superficie della piazza.

 

 

 

Un grazie particolare per questa ricerca a Chiara Ferralis